Intervista a Cavour,
l’uomo che ha guidato l’Unità
di Marika Corallo, Diego De Tommasi, Andrea Fiesole, Marta Quarta, Giorgia Russo
di Marika Corallo, Diego De Tommasi, Andrea Fiesole, Marta Quarta, Giorgia Russo
Abbiamo il piacere di intervistare il protagonista politico dell’Unità d’Italia, colui che grazie alla sua abilità nel tessere alleanze e nel difendere i principi del liberalismo ha guidato l’unificazione sotto la Corona Sabauda.
Ci parla del suo rapporto con
«Come ben sapete, io sono per l’idea che Stato e Chiesa siano due istituzioni ben distinte, che debbano rimanere separate e in tal senso sto lavorando già da tempo».
Qual è stato il ruolo della spedizione dei Mille?
«Il ruolo della spedizione dei Mille, capeggiati da Garibaldi, è stato quello di contribuire all’unificazione dell’Italia. Se mi permettete, anch’io mi definirei un protagonista della spedizione dei Mille, perché io ho dato l’incarico a Garibaldi di unificare l’Italia».
Dopo la seconda guerra d’indipendenza cosa accadde?
«La seconda guerra d’indipendenza terminò l’11 luglio 1959 permettendo l’acquisizione della Lombardia. Rimase escluso il Veneto, ma l’estendersi del movimento democratico nazionale suscitò nei francesi il timore della creazione di uno Stato italiano unitario troppo forte e quindi l’armistizio di Villafranca provocò il temporaneo congelamento dei moti e la mia decisione di allontanarmi dalla guida del Governo».
La lontananza dal governo fu una cosa momentanea?
«Sì, e appena ritornato alla presidenza del Consiglio riuscii a utilizzare a mio vantaggio la momentanea freddezza nei rapporti con la Francia , riordinando così la contemporanea invasione dello Stato pontificio e rinnovando la fedeltà di Giuseppe Garibaldi con il motto: “Italia e Vittorio Emanuele”».
La fondazione, nel dicembre 1847, del quotidiano «Il Risorgimento» segnò l’avvio del suo impegno politico.
«Come ben sapete, il quotidiano “Il Risorgimento” segnò l’avvio del mio impegno politico e, secondo la mia opinione, una profonda ristrutturazione delle istituzioni politiche piemontesi e la creazione di uno Stato territoriale ampio e unito in Italia. Solo ciò può rendere possibile il processo di sviluppo e crescita economico-sociale che è stato promosso, quindi, da me».
Lei nel 1850 venne a far parte del gabinetto d’Azeglio, subito dopo divenne Ministro delle Finanze, per poi diventare nel 1852 Presidente del Consiglio. Di tutto ciò è fiero?
«Sì, ovviamente sono fiero di me, perché prima di diventare quel che sono ora, quindi Presidente del Consiglio, ho dovuto faticare molto e di questo sono più che soddisfatto. Prima della mia nomina, avevo già in mente un programma politico ben chiaro e definito, però avevo un solo ostacolo: non godevo con tutto il mio potenziale della simpatia del Parlamento».
Perché?
«Non godevo dell’appoggio del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva nelle mie intenzioni riformatrici, mentre dalle destre ero considerato addirittura un pericoloso giacobino».
Qual è il suo orientamento politico?
«Innanzitutto in politica interna desidero fare del Piemonte uno Stato costituzionale ispirato a un liberismo misurato e progressivo».
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